Dicembre 2016 – Loira Giusta

LOIRA GIUSTA di Claudio Corrieri

Strano ma vero, non era venuto in mente a nessuno di fare una degustazione così completa sulle denominazioni che costeggiano la Loira, a partire dal Sancerrois attraverso il Saumurois,  fino a arrivare ai Pays Nantais.

Bisognava aspettare l’unione d’intenti di bravi e attenti importatori come Maurizio Cavalli, Mario e Leonardo del Teatro del Vino e Christian Bucci delle Caves de Pyrene, l’individuazione di una location ampia e conosciuta come Villa Favorita nel vicentino e, infine, la buona volontà di circa 500 appassionati giunti da ogni dove per appagare la propria curiosità.

Loira Giusta, il (giusto) nome dato all’evento.

Il percorso è stato suddiviso per denominazioni (appellations) e per selezioni operate dai vari importatori (erano presenti anche alcune campionature del Club Excellence, ovvero il resto degli importatori che agiscono in Italia). In effetti non era un compito facile esporre in  un corpo unico la Loira del vino, data anche  la grande estensione della zona, oltre a una differenziazione geologica significativa da ovest a est e una condizione  meteorologica dove gli  influssi continentali da una parte e oceanici dall’altra, generano vere e profonde disomogeneità fra le varie denominazioni.

Fra un banco d’assaggio e l’altro sono però riuscito a trascrivere qualche nota (da intendere solo come una parziale indicazione di merito e di stili produttivi).

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Quincy (per 240 ettari a sud ovest della più nota zona di Sancerre).

*Domaine du Tremblay Cuvée Vieilles Vignes 2014 – (sauvignon) –

integro il frutto fra fiori gialli e agrumi, attacco che da subito induce alla beva per le movenze agili e sapide, tessitura un po’ in debito di densità ma nell’insieme un buon riferimento – 86/100.

Menetou-Salon (per 484 ettari al confine con la zona del Sancerre).

*Domaine Pellé  Morogues Les Blanchais 2014 – (sauvignon) –

colore marcato, con tendenze evolutive confermate anche al naso, è giocato più sulla ricerca di estrazione e potenza che sulla finezza e sulla dinamica. Finale che non riesce a progredire – 82/100.

Sancerre (per 2815 ettari lungo la riva destra del fiume con terreni gessosi e silicei patria elettiva ma non esclusiva del sauvignon).

*Henry Bourgeois Sancerre Cuvée d’Antan 2014 – (sauvignon) –

gli aromi colpiscono per integrità e precisione, ordinati e scanditi dal pompelmo alla pesca bianca, centro bocca che dà impulso e rilancia la dinamica nel finale salino e materico; vino ben fatto e ben gestito – 90/100.

*Domaine du Carrou Sancerre Rosé 2014 – (pinot noir) –

curiosa espressione in rosato di pinot nero, tutta giocata in sottrazione e bevibilità,  non fa mostra di muscoli e potenza ma vola sciolto e libero  sulle ali della leggerezza e della fragranza aromatica, fra note di rose e di ribes – 84/100.

*Comte Lafond Sancerre Grand Cuvée 2014 – (sauvignon) –

il naso è inchiodato dall’abbondante solforosa, anche se fra le pieghe si intravede una materia ordinaria ma  ben disposta (spesso i  cugini francesi attuano queste terapie inoculanti di so2 per poi vantarsi della longevità dei loro vini bianchi…) – 82/100.

*Domaine Gitton Père et fils Galinot Silex 2012 – (sauvignon) –

ampio, grasso e ben estratto, fra espressioni fruttate e mature di melone giallo e pesca bianca, ha una eccessiva presenza boisé che banalizza il carattere, con finale lungo ma dominato dai legni dolci – 85/100.

*Vincent Pinard Sancerre Blanc Flores 2014 – (sauvignon) –

mano felice e ispirata anche in un semplice bianco base: Vincent riesce a cogliere le caratteristiche del miglior Sauvignon della zona con fragranze floreali precise e nette e grande dinamica gustativa, tanto facile è la bevibilità – 88/100.

*Vincent Pinard Sancerre Blanc Petit Chemarin 2013 – (sauvignon) –

quì c’è maggiore estrazione, tensione e acidità, è grasso ma senza essere pesante e senza frenare la beva e la dinamica gustativa; con la solita mano sapiente e chirurgica in vinificazione, Vincent ci lascia un vino da bere ora ma anche per i prossimi 10 anni – 92/100.

*Pascal Cotat Sancerre La Grande Côte 2015 – (sauvignon) –

Pascal sicuramente è un grande produttore, ma il fatto che si ostini, con vendemmie sempre più tardive, a cercare maturità e senso di grassezza mi lascia un po’ perplesso. Il finale sapido e salmastro ti riconcilia un po’ e si salda con il territorio ma mi aspettavo qualcosa di più. Sarà l’annata calda o la poca permanenza in bottiglia? vedremo…87/100.

Pouilly-Fumè (per 1200 ettari a est della Loira terreni ricchi di calcare)

*Domaine Bouchié-Chantellier Première Millesime 2014 – (sauvignon) –

interpretazione semplice ma scorrevole e appetitosa, con note giustamente affumicate e finale delicato su sentori di pompelmo; è però in debito di carattere territoriale – 85/100.

*Château de Tracy Haute Densité 2013 – (sauvignon) –

ottimo il naso fra accenni di salvia e finocchietto selvatico, ma anche cera d’api e pietra vulcanica; i legni e il frutto sono ben integrati e il  finale trova intensità e distensione. La densità per ettaro per la produzione di questa cuvée arriva a 17000 piante – 90/100.

*Joseph Mellot  Le Troncsec 2015 – (sauvignon) –

non eccelle per complessità e rigore stilistico, ma si lascia bere facilmente anche se non c’è da sbilanciarsi troppo sulla sua longevità futura – 84/100.

*Puzelat-Bonhomme 2012 – (sauvignon) –

si tratta della società di negozio di Tierry Puzelat e ne mantiene lo stile e l’approccio biodinamico. Al netto di alcuni cenni ossidativi, esprime una bella bevibilità e un’interpretazione originale – 84/100.

Cour-Cheverny (circa 50 ettari).

*Domaine des Huardes Cour-Cheverny Cuvée Francois 1ere 2011 – (romorantin)  –

mi ha incuriosito l’uva che compone questo vino, rara e autoctona. Basti pensare che per anni i vini  bianchi di molte osterie di Parigi erano a base di Romorantin, paragonabile al nostro trebbiano toscano delle campagne chiantigiane, presente in alcune trattorie popolari. Ma, al di là della dote rustica e della leggera vena ossidativa, il vino mostra un carattere salino e un buon temperamento gastronomico, fra aromi di castagna bollita e tiglio – 86/100.

Touraine (ampia e divisa in molte sottozone per 4475 ettari).

*Puzelat-Bonhomme Touraine Ko in cot we trust 2012 – (malbec) –

veramente singolare questo vino per chi conosce alcuni esempi di Malbec magari argentini o  italiani. Vinificato adottando un protocollo Bio, non nasconde alcune imperfezioni fra volatili alte e residuali odori di ridotto; trova  però in bocca una sorprendente verve, aromatica e sapida, che spinge molto il finale – 85/100.

Coteaux-Vendomois (153 ettari  con uve miste fra cui il “super autoctono” pineau d’Aunis)

*Patrice Colin Petillant Perles Grises – (pineau d’Aunis) –

vino carbonico rifermentato in bottiglia, evidenzia note speziate e pepate intriganti e una bella cremosità  al palato, che induce a una fragrante bevuta stimolata da una fresca acidità – 86/100.

Jasnieres (65 ettari accanto al Coteaux-Vendomois).

*Domaine de Bellivière  Les Rosier 2014 – (chenin) –

le vigne giovani (50 anni!!) di questo produttore danno un contributo di complessità minerale al vino e una corrente acida che illumina il sorso, lungo, modulato con un finale scattante, tonico e roccioso in tutti i sensi. Tessitura da grande vino, una bella scoperta – 91/100.

Montlouis (350 ettari fra argille silicee e sabbia).

*Frantz Saumon Mineral 2015 – (50% sauvignon, 50% chenin) –

mai nome fu più appropriato: le note affumicate e vulcaniche ti entrano subito nel naso e non te le togli più, soprattutto grazie a un sorso che conferma e dilata queste sensazioni, affiancando anche gli aromi agrumati del sauvignon e mielati dello chenin – 89/100.

Vouvray (2175 ettari  dove lo chenin trova molte interpretazioni fra sec, demi-sec, metodo tradizionale ..).

*Domaine Careme Ancestrale 2013 – (chenin blanc) –

piacevole spumante, anche qui il rigore e la tecnica non riescono a delineare i contorni di questo vino, ma la beva è progressiva e piacevole – 84/100.

*Clos Naudin Demi-sec 2003 – (chenin blanc) –

lo chenin nella sua interpretazione con residuo zuccherino, ma dove il contrasto di una acidità notevole e il finale dolce e minerale creano una bevibilità esplosiva. Struttura dalla tessitura agile e felpata, mai in debito di continuità e ricca di stratificazioni sul palato – 93/100.

Chinon (2350 ettari, quasi tutti a cabernet franc).

*Domaine Alliet Coteau de Noiré 2012 – (cabernet franc) –

note pepate e speziate, leggera immaturità tannica, ma vista la latitudine e l’annata ci può stare. Non presenta complessità ma ha buona bevibilità – 85/100.

Bourgueil (1407 ettari fra terrazzamenti ghiaiosi e suoli tufacei).

*Domaine de la Chevalerie Chevalerie 2012 – (cabernet franc) –

ribes e spezie per una naso semplice ma ben scandito, attacco tenue, dai tannini leggermente verdi, manca un po’ di energia e di consistenza tattile – 85/100.

Saint Nicolas de Bourgueil (1073 ettari di freschezza).

*Frederic Mabileau Les Rouilleres 2014 – (cabernet franc) –

non bisogna cercare maturità solare del tannino e cremosità al palato: quì le maturazioni sono più difficili e la chiave interpretativa rimangono la freschezza e la dinamica. Se vi aggrada, godetevi il finale pepato e speziato che ricorda certi nostri cabernet franc del Friuli – 87/100.

Saumur-Champigny e Saumur ( un mare magnum di chenin e cabernet franc ma anche altro).

* Château Yvonne Saumur Blanc 2014 – (chenin blanc) –

begli aromi rinfrescanti fra nespola, albicocca e frutta della passione; vino che esprime maturità e un bel contrasto, oltre a un bel carattere, fra dolcezze di ottima maturità e freschezza acide del vitigno – 88/100.

*Domaine des Roches Neuves Saumur Blanc L’insolite 2015 – (chenin blanc) –

l’annata siccitosa non ha tolto il respiro a questo vino ormai famoso, che manifesta  nei primi rimandi odorosi toni agrumati, di pera bianca, di pompelmo e mela. Conoscendolo ricordo bene che con la maturità i profumi diventano più complessi e fini, riconciliandosi con il temperamento dello chenin più tipico, fra frutta esotica e nespola, ma anche con profonde note idrocarburiche. Aspetteremo, ma per ora è buono come sempre – 90/100.

*Domaine des Roches Nueves Saumur-Champigny Les Mémoires 2014 – (cabernet franc) –

sciolto, agile come una gazzella, integro nei suoi aromi di ribes e spezie, è maturo, con nessun accenno verde e finale profondo; è un vino molto interessante, magari non ha una fasciatura tannica così spessa per noi italiani, abituati a ben altri corredi tannici, ma il frutto è veramente ben estratto e modulato nel lungo finale – 93/100.

*Domaine des Roches Nueves La Marginale 2013 – (cabernet franc) –

il vinone di Thierry Germain: vinificazione rigorosa, legno non leggero ma integrato, attacco polposo e materico, finale che abbisogna di tempo ma sembra essere già in equilibrio – 92/100.

*Le P’tit Domaine Saumur Blanc Entre Deux Voies 2013 – (chenin blanc) –

è ancora compresso dal rovere e questo dato mi preoccupa, visto che è un vino imbottigliato da qualche tempo; bocca salina e dolce (sempre il rovere) con alcune  impuntature acide e finale di media gittata – 84/100.

Anjou e Coteaux de Layon (4693 ettari)

*Château Pierre Bise Cramant de Loire – (chenin blanc) –

piacevole, scorrevole, note di pera e mela, buona carbonica, è ormai un valore sicuro nella sua fascia di prezzo, fragrante e appetitoso, non ti stanca – 85/100.

*Château Pierre Bise Coteaux du Layon Beaulieu Les Rouannieres 2014 – (chenin blanc) –

vino giocato sul contrasto acido zuccherino, ha notevole tatto e persistenza senza essere stucchevole – 90/100.

*Clos des Treilles Anjou Blanc Victoire 2011 – (chenin blanc) –

molto puro nei profumi, ha dei rimandi odorosi singolari e accattivanti, meno sul frutto e più su una mineralità spinta e sulfurea, cera d’api e fiori gialli; il finale è vibrante, tonico, ancora acido e fresco – 90/100.

Savennieres (120 ettari la patria di Nicolas Joli)

*Domaine de Closel Le Clos du Papillon 2014 – (chenin blanc) –

bella maturità fra note di castagna e di pera, attacco saldo in bocca coerente e finale con un lieve residuo zuccherino che ne amplifica la complessità e la morbidezza – 87/100.

 

Claudio Corrieri

 

 

 

 

Dicembre 2016 – Sergio Germano e i suoi vini

di Daniele Parri

Le Langhe per un appassionato di vino somigliano molto a una specie di parco giochi. Solo che al posto delle classiche attrazioni si possono trovare grandi vini, una cucina eccezionale e un panorama unico. Ovviamente chi dice Langa dice Barolo o Barbaresco. Tuttavia negli ultimi anni c’è chi ha scommesso su qualcosa oltre il nebbiolo e, pur mantenendo le radici ben salde nella propria storia, si è anche aperto all’innovazione e alla sperimentazione ottenendo degli ottimi risultati.

È il caso di Sergio Germano che rappresenta la quarta generazione di viticoltori della sua famiglia e che oggi guida l’azienda Germano Ettore, presente dal 1856 su una delle colline più famose di Serralunga ovvero la Cerretta. L’azienda oggi è composta da circa 20 ettari complessivi e produce una variegata gamma di vini che vanno dai vini bianchi ai grandi rossi da invecchiamento.

Sergio è una persona molto legata alla sua terra e alle sue colline, ma anche stimolato dalla voglia di mettersi alla prova e cimentarsi in nuove sfide.

Proprio il volersi misurare sulle sue capacità lo ha portato, alla fine degli anni ’90, ad investire su un appezzamento di circa 8 ettari in Alta Langa, nel comune di Cigliè, ad un altitudine di circa 600 m s.l.m. su suoli con una buona percentuale di calcare ma anche con molta sabbia e scheletro.

Qui Sergio Germano, confermando la sua lungimiranza e intuendo un interessante rapporto tra microclima e terreno, pianta Chardonnay e Pinot nero per creare un metodo classico da inserire nella giovane DOCG dell’Alta Langa. Grande appassionato di vini bianchi, decide successivamente di piantare prima il Riesling renano e poi la Nascetta, vitigno langarolo tanto tipico quanto bistrattato e ignorato, soprattutto all’epoca (2004). Una scelta rivelatasi azzeccata perché nel tempo questo vitigno ha accresciuto la sua reputazione.

I vini di Cigliè

Cominciamo assaggiando l’Alta Langa 2012, un metodo classico costituito per l’80% da Pinot Nero fermentato in acciaio e per un 20% da Chardonnay fermentato in legno. Successivamente, dopo l’assemblaggio, il vino viene lasciato per trenta mesi sui lieviti prima della sboccatura. Al naso è fragrante, con note incentrate più sul frutto che sul lievito. In bocca invece sprigiona tutta la sua verticalità e sapidità, regalando leggeri sentori di frutta secca con un finale secco e deciso.

La Nascetta 2015 è un vino molto interessante: ha un naso terroso, con qualche nota vegetale e salmastra. Una volta raccolte, le uve vengono fatte macerare durante la fermentazione per 4-5 giorni, così da permettere l’estrazione di queste note caratteristiche senza appiattirne troppo lo stile. Al palato è fresco, salato e succoso, contrastato da una lieve tannicità per niente sgradevole.

Il Riesling di Sergio si è conquistato nel tempo un’importante e meritata fama, se non altro per il fatto che l’alta qualità del prodotto si è dimostrata tale già dai primi anni di produzione, quando forse nessuno aveva pensato di coltivare Riesling nelle Langhe. Ecco l’Hérzu 2015, un vino che esprime all’olfatto un frutto appena maturo, qualche accenno ad una primitiva sensazione di pietra focaia e idrocarburo che si svilupperà con un futuro invecchiamento. In bocca è completo: una prima rotondità data dall’ingresso dolce, lascia il passo a una salinità ben dosata e sostenuta dall’acidità continua che lo accompagna su un finale equilibrato e quasi gessoso.

Però, come dicevamo prima, Sergio ha le radici ben salde nella propria storia e soprattutto sopra le sue colline. La famiglia Germano ha circa 10 ettari nel comune di Serralunga d’Alba coltivati a Nebbiolo da Barolo, Barbera d’Alba e Dolcetto d’Alba. Il Nebbiolo da Barolo si trova tra alcuni dei più famosi cru di Serralunga: Cerretta, Prapò e Lazzarito. La differenza di suoli ed esposizioni di questi vigneti permette di ottenere vini con sfumature molto diverse tra loro.

  • Cerretta: vigneto di circa 3 ettari , con esposizione a sud-sud est ad un altitudine tra i 350 e i 400 metri. I suoli sono molto calcarei e le viti più vecchie risalgono alla fine degli anno’70. In fermentazione le uve derivanti da questo vigneto, macerano sulle bucce per più di 30 giorni e il vino invecchia in botti da 700 litri per 24 mesi.
  • Prapò: cru caratterizato da vigne di più di 50 anni coltivate su terreni calcarei ma con una percentuale di sabbia maggiore rispetto alla Cerretta. La parcella di vigneto è di circa un ettaro e mezzo e la densità d’impianto è di circa 4000 piante per ettaro.
  • Lazzarito: terreni calcarei con la presenza di tufo blu , di marne e sabbia. La fermentazione delle uve del Lazzarito avviene con macerazione sulle bucce per 50 giorni. Il vino invecchia poi in botti da 20 ettolitri per 36 mesi e successivamente per 2 anni in bottiglia.

I vini di Serralunga

Iniziamo con la Barbera d’Alba Superiore Vigna della Madre 2013, un vino che invecchia per un anno in fusti di legno da 700 e 225 litri. Profumi dai toni molto scuri, terrosi e accompagnati da una delicata speziatura e note fumè. In bocca è potente, ampio e succoso, con dei tannini scattanti ma ben integrati e un finale salato.

Passiamo al nebbiolo nella sua forma più semplice con il Nebbiolo 2015. Dopo una fermentazione totalmente in acciaio e con macerazione di 5 giorni sulle bucce, il vino, soprattutto in questa versione, propone sentori delicati e sottili di frutta rossa fresca ma anche di pepe e menta. La bocca è delicata e molto succosa, potrebbe essere forse accusato di eccessiva esilità, ma rappresenta comunque un ottimo equilibrio tra la dolcezza del frutto e tannicità vegetale.

Aumentiamo la complessità passando ai Baroli. Il Barolo Cerretta 2012 si presenta al naso con note terrose e calde. Lasciandolo respirare nel bicchiere riesce ad esprimere caratteristiche più balsamiche. Al palato è molto reattivo e con un carattere molto pronunciato dato da un tannino sgranato e austero, secondo la migliore tradizione di Serralunga; per adesso gioca più sulla potenza che sulla finezza. Dimostra sin da subito un grado di finezza maggiore il Barolo Prapò 2012. I profumi sono un po’ nascosti, dai tratti delicati come fiori appassiti ed erbe officinali. Il tannino è già ben svolto e ha una grande fluidità nel percorso gustativo, sostenuto da una continua freschezza e con un finale delicato incentrato sul frutto.

Il Barolo Lazzarito Riserva 2010 offre sentori di frutta matura, cuoio e leggere sfumature chinate. La bocca è molto saporita, grazie alla ricchezza del frutto che avvolge il palato e a un tannino molto fitto e fine che appaga pienamente.

Daniele Parri

 

 

Dicembre 2016 – El Desafio de Jonata

Paolo Valdastri e…la California.

IL CUGINO DI SCREAMING EAGLE: EL DESAFIO DE JONATA, UNA SFIDA VINTA ALLA GRANDE

Screaming Eagle, chi era costui? Per chi non fosse addentro ai vini californiani, basta dire che la quotazione media di una bottiglia è sui 1.200 $. Non è mia abitudine attribuire al prezzo la qualità, ma in questo caso può bastare. Un’icona della Napa Valley.

Ma qui parliamo di Jonata. Ho ordinato una bottiglia del Desafìo al Prima di Nashville, qualche tempo fa, su consiglio di Angelo Ferrante, allora responsabile di sala di questo mega-ristorante appena inaugurato nel Gulch.

Seduti sotto una colossale installazione luminosa di Bruce Munro, in attesa di un petto d’anatra affumicato dell’Hudson Valley dello chef Salvador Avila, dobbiamo ordinare il vino. Il discorso va sui grandi californiani ed esce il nome di un vino virtuale (per le mie tasche) come Screaming Eagle. “Ma vale la pena spendere quelle cifre per un californiano?” chiedo ad Angelo. “C’è una novità”, ribatte, “puoi farti un’idea con uno stretto parente, El Desafio de Jonata. Il proprietario è anche azionista di Screaming Eagle. Sentirai che roba!”. Mi voglio fidare, ma penso che rimpiangerò i 140 dollari necessari per la bottiglia, e che li rimpiangerò dopo il primo sorso immaginandolo pieno di estratti frutttati pesanti, farcito di rovere stucchevole.

Invece di stucco resto io, proprio dopo il primo sorso: già il naso intenso e profondissimo parla di erbe mentolate, di bacche selvatiche e sentori balsamici, di frutti di bosco, di terra bagnata, di speziatura fine e incenso. Il palato conferma tutto a partire dalla grande freschezza nell’attacco, con una continuità di sapore che ti accompagna con piccoli frutti neri freschi ed erbe aromatiche su una trama tannica vellutata, finissima e dolce. Sensazioni che si stratificano e si distendono in un continuo di grande piacevolezza. Il finale è lungo e ti lascia con la voglia di un immediato secondo sorso. Un vino goloso, pieno ma elegante e perfettamente bilanciato. Già, proprio dalla California. Il pensiero corre a Bolgheri: il confronto globale si fa duro. Non penso a Bordeaux perché lo stile del vino non è quello più sottile e raffinato di una viticoltura da clima freddo, ma piuttosto quello di una zona calda come Santa Ynez e come lo è appunto la costa Toscana. L’eleganza e la piacevolezza sono di grandissima razza, qualità che non sempre molti dei nostri vini hanno.

Desafio de Jonata. Ma che razza di nome è? E da dove viene esattamente?

Jonata non è il nome del vignaiolo, ma è una località della Santa Ynez Valley in Santa Barbara, California. Il nome Jonata rende omaggio alla concessione spagnola del 1845 Rancho San Carlos de Jonata, ma deriva dall’indiano locale Chumash e significa “quercia alta”.

El Desafio, la Sfida, invece, è proprio una Sfida con la S maiuscola e portata avanti con il motto “Sustainability as a Way of Life”.

Il suolo qui è completamente diverso rispetto a quello dei vicini produttori che hanno vigne piantate su terreni argillosi e rocciosi. A Jonata siamo sulla sabbia e nessun viticoltore sceglierebbe di piantare vigneti in una situazione simile. Il suolo sabbioso è un suolo a bassa fertilità, alte proprietà di aerazione e bassa capacità di trattenere l’acqua. Qui poi abbiamo di fronte una sabbia chiamata Careaga, tardo pliocenica e a grani fini di forma rettangolare. Questo rende la sabbia eccezionalmente drenante. Un suolo del genere è ottimo per gli ortaggi a radice, ma molto problematico per la vite.

Invece Charles Banks dette vita a Jonata nel 2000 con l’obbiettivo di competere con i più grandi vini del mondo. Piantò una serie di vitigni molto ampia: Syrah e Grenache, ma anche Sangiovese, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc. Il primo vino risale al 2004 ed era venduto a 100 $ in una zona dove il valore medio dei vini più cari era intorno ai 50$.

Ma come faceva con quel tipo di suolo? Banks aveva addirittura chiesto un parere a Frédéric Engerer di Château Latour in visita alla proprietà e si era sentito rispondere “qui è meglio piantare asparagi”.

Ma Banks aveva due collaboratori, Ruben Solorzano in vigna e Matt Dees enologo, inclini a seguire l’istinto più che le analisi di laboratorio, adusi ad ascoltare la vigna, più che a seguire protocolli. Più filosofi del vino che tecnici di laboratorio. Il primo ascolta il rumore delle foglie nel vento, il secondo si connette emozionalmente ed intellettualmente alla struttura, al tessuto del vino e dei tannini. Così l’indirizzo è stato quello di andare controcorrente: mentre i produttori vicini si dibattevano con il problema di rendere i prodotti meno alcolici e diminuire le sensazioni sovraccariche di vini pesanti, la squadra di Jonata si dedicava a fare vini di terroir, con un terreno che poteva dare solo piccole quantità di frutto maturo e potente. Frutto che doveva provenire non da un sistema di vigneti a monocultura, ma da una vera e propria fattoria che operasse come un grande ecosistema ad alto grado di biodiversità. Matt Dees vedeva le aziende con solo vigneto come qualcosa di innaturale e malaticcio. Così Jonata è diventato un paradiso popolato da 120 polli, 100 pecore e capre, 16 tacchini, 20 maiali e un cinghiale. Un lama vagabondo e cani e gatti.

Tutti lavorano per la salute del ranch, a partire dai polli che vengono fatti razzolare tra le vigne quando ci sono carenze di azoto. Ovviamente anche le colture sono differenziate e in equilibrio tra loro: i maiali, ad esempio, sono alimentati con zucche e mais a chilometro zero.

Ai produttori vicini quest’impresa sembrava un affare costoso, una stramberia originale e poco avvicinabile.

Per Matt Dees questi terreni in mano ad un neofita avrebbero rappresentato una situazione disastrosa. Per un vero vignaiolo, invece, questo tipo di terreno può costituire un’opportunità per un controllo quasi perfetto. Matt è un intuitivo e alcuni aspetti del suo lavoro non hanno spiegazioni scientifiche: che cosa questa sabbia dà i più rispetto ad altri suoli? Sicuramente i risultati dicono che c’è un forte effetto sulla tessitura tannica dei vini, con profilo dei tannini diverso dai suoli vicini limo-argillosi.

Stanley Kroenke, azionista della Screaming Eagle, non si lasciò impressionare da queste “stregonerie” e nel 2009 comprò la maggioranza di Jonata. Kroenke non è un tecnico di vitivinicoltura, ma un investitore attento principalmente ai risultati. Così Dees e Solorzano furono lasciati liberi di seguire la propria visione. Ovviamente non avrebbero mai accettato di produrre vini con i protocolli della Napa Valley, ma fortunatamente non venne imposto di diventare la Screaming Eagle Sud o il secondo vino di Screaming Eagle. Jonata era ed è altra cosa. Prendiamo ad esempio El Alma, il Cabernet Franc. In Napa si farebbe un’estrazione completa perché le uve maturano abbastanza per permettere questo. Dees provò a seguire lo stesso criterio nel 2004 e 2005, ma si rese conto che i vinaccioli non erano mai così maturi come al nord, in Napa. Così decise di farla finita con i vini di grande struttura, di lunga estrazione con tanto tannino. I vini di Jonata fanno un’estrazione molto contenuta nella fase di post- fermentazione.

Il punto di forza dei rossi di Jonata sono proprio questi tannini, robusti e presenti in vini dal colore scuro, ma mai marmellatosi e stucchevoli. Oltre all’estrazione Solorzano attribuisce il merito anche alla cura della vigna, soprattutto sotto l’aspetto del fabbisogno idrico. Quando fa molto caldo Solorzano va in vigna tre volte al giorno, mattino, mezzogiorno e tardo pomeriggio, e se si accorge che ci sono condizioni di stress fa un’irrigazione di soccorso, quel tanto di acqua necessario per mantenere le foglie vive.

 

In definitiva Jonata è un qualcosa di unico, perché l’insieme delle condizioni sono diverse da tutto quello che lo circonda e difficilmente si troveranno altri imprenditori vitivinicoli disposti a percorrere una strada così complessa. A Jonata funziona e benissimo ed i suoi vini, portafoglio permettendo, sono un vero imperdibile esempio di equilibrio e armonia con tutti i parametri a valori alti, una vera ghiottoneria da gourmet.

EL DESAFIO DE JONATA – 2011

BALLARD CANYON, SANTA YNEZ VALLEY

Cabernet Sauvignon 95%, Merlot 3%, Petit Verdot 2%

Barrique rovere francese nuove 80%, resto barrique di secondo e terzo passaggio.

6000 bottiglie prodotte

Nel bicchiere è subito espressivo e fragrante. Il frutto nero, prugna, mora, mirtillo si accompagna a note di cacao e caffè, erbe balsamiche, alloro, terra bagnata e liquirizia. Il palato ha una presa avvincente. Il frutto è succoso e fresco, pieno complesso, ghiotto. La trama tannica è velluto e seta. Il finale molto lungo e trascinante.

www.jonata.com

ALTRI VINI DELL’AZIENDA:

El Alma, Cabernet Franc 72%, Cabernet Sauvignon, Merlot, Petit Verdot

La Sangre, Syrah 97%, Viognier

Todos, Syrah 75%, Merlot, Cabernet Sauvignon, Sangiovese, Petit Verdot, Viognier, Cabernet Franc

Fenix, Merlot 70%, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Petit Verdot

Tierra, Sangiovese 100%

Fuerza, Petit Verdot 100%

Flor, Sauvignon Blanc 70%, Sémillon

La Miel, Sémillon 80%, Sauvignon Blanc, passito.

 

Paolo Valdastri

Novembre 2016 – Armenia: quì è nato il vino

L’amico Paolo Valdastri mi ha inviato un interessantissimo reportage sui vini armeni, che vi propongo direttamente. Buona lettura.

 

Armenia: qui è nato il vino di Paolo Valdastri

La storia di Zorah e del suo “Why Not?”.

In Armenia sono stati ritrovati vinaccioli che farebbero risalire l’origine della tradizione vinicola a 5000 anni fa, così come l’esistenza di circa 500 vitigni autoctoni differenti confermerebbero la tesi secondo la quale il vino sarebbe nato in quest’area.

In vicinanza del monte Ararat non può che tornare alla mente l’immagine di Noè che beve il succo fermentato della vite e si inebria, ed è  impressionante sapere che qui vicino è stata scoperta la cantina più vecchia del mondo, con datazione di 6100 anni, ritrovata durante le campagne di scavo di Areni-1, nella regione armena dello Yeghegnadzor.

La vinificazione avviene da allora nelle karasì o kwevri, grandi anfore di coccio seppellite sotto terra, dentro le quali tradizionalmente si metteva il grappolo intero, raspi compresi. Il vino ottenuto restava a lungo in contatto con le fecce o addirittura lo si svinava al momento di berlo. Questo metodo, come sarà noto, è stato ripreso di recente ed in molte aree vinicole stanno fiorendo i cosiddetti vini  “in anfora” o macerativi, tra i quali si collocano gli “orange wines”, vini bianchi vinificati in rosso, ovvero in contatto con le bucce. Ovviamente le vinificazioni attuali seguono queste tradizioni, ma applicando molte delle moderne conoscenze soprattutto nel campo dell’igiene in cantina, e i vini che si ottengono si possono a tutti gli effetti considerare tra i vini più interessanti sul mercato, ancorché dividano violentemente i giudizi dei critici e il gradimento dei consumatori.

L’Armenia, paese sotto i riflettori della cronaca (ha celebrato il 24 aprile 2015 i cento anni dall’eccidio e dalle deportazioni subite da parte degli ottomani), possiede questo patrimonio storico. Purtroppo le uccisioni e le deportazioni hanno frenato lo sviluppo di questa nazione, ma attualmente qualcosa sembra cominciare a muoversi.

Ho conosciuto Zorik Gharibian qualche anno fa ad un Vinitaly. Uno stand affollatissimo: in un angolo noto un personaggio dal volto aperto e sorridente, tranquillo tanto da sembrare insensibile alla confusione che lo circonda. Ci guardiamo e sorride di nuovo leggendo il mio sguardo perplesso e interrogativo di fronte al nome dell’azienda: ZORAH. “Siamo Armeni” mi dice, “vuole assaggiare il mio vino?”. Come invitare la lepre a correre! Ma non prima di avere ascoltato la sua storia.

Zorik Gharibian, accompagnato da Yeraz Tomassians, è uno dei discendenti della popolazione sopravvissuta agli eccidi di inizio ‘900 che ha deciso di interrompere la diaspora e di conoscere la terra dei suoi avi. Imprenditore nel mondo della moda, con studi a Venezia, mette piede in Armenia per la prima volta quando è già adulto. Qui capisce subito che esiste una cultura del vino dalle radici profonde. Zorik stava meditando sulla possibilità di impiantare un vigneto in Toscana, ma quando è arrivato in Armenia, in mezzo alle sue montagne, in panorami che si aprono su scenari aerei, è stato folgorato da un’idea: il ritorno alle origini non era stato casuale. Vuole realizzare un sogno: produrre in questa terra il vino, un grande vino, con i metodi antichi degli avi. Non per niente il suo motto è “ The future belongs to those who believe in the beauty of their dreams”. Sogna cose mai esistite e si chiede: “Why not?”.

Decide di far rinascere tutti i valori della viticoltura tradizionale, ma con un approccio moderno per creare vini profondi che parlino di questi luoghi magici. Passa dal sogno alla concretezza e mette insieme un team di professionisti che in dieci anni di lavoro raggiunge la prima vendemmia. Il suo obbiettivo è quello di creare un vino che possa competere con i migliori del mondo, ma grazie principalmente al suo legame con il territorio di origine, senza tecniche invasive.

Quando mi dice da chi è composto il team non posso che esclamare “ma quanto è piccolo il mondo!!”.  Si tratta di Alberto Antonini e dell’amico Stefano Bartolomei di bolgheresi frequentazioni. Una bellissima sfida vedere dei personaggi così competenti, ma nati e vissuti accanto all’uso del rovere, cimentarsi con un mezzo “antico e nuovo” allo stesso tempo come l’anfora.

La ricerca dei luoghi migliori dove impiantare la vigna ha richiesto il suo tempo. Siamo ad una latitudine dai 5 ai 7 gradi più a sud dei vigneti francesi. Le temperature durante il giorno in estate sono molto elevate e quindi occorre compensare con l’altitudine: gran parte dei vigneti si trovano tra i 700 e i 1700 m slm.

La scelta cade proprio sul territorio di Yeghegnadzor, su di un terreno di fronte al quale a poca distanza giace il sito della più vecchia cantina del mondo. Siamo a 1400 metri di altezza, con un microclima straordinario e forti escursioni termiche fra giorno e notte. Qui la maturazione avviene lentamente e progressivamente spingendo la vendemmia fino al mese di ottobre. I suoli sono rocciosi, ricchi di calcare, con capacità di trattenere quel tanto di umidità necessaria a superare le siccità estive, considerando che l’irrigazione in Armenia è una pratica generalizzata e necessaria.

Le viti provengono da un’attenta selezione massale da un vigneto abbandonato di un vicino monastero del XIII secolo e sono piantate su piede franco. Qui la fillossera non è mai arrivata e le varietà antiche possono esprimersi così in tutta la loro originale purezza. La varietà principale è l’Areni Noir, presente su 10 ettari e in una vigna cru che si trova a 1600 metri slm. L’Areni ha sviluppato una buccia molto spessa che lo protegge dalle forti escursioni termiche conservando eleganza e freschezza di frutto.

Gli interventi in vigna sono ridotti al minimo con un concetto che ricorda il “minimal pruning” australiano. Nella vigna più alta si entra addirittura soltanto due volte: una volta per potare e una volta per vendemmiare. La scelta del momento in cui vendemmiare è delicatissima: a queste altitudini la maturazione è lenta e combatte con le variazioni di clima dell’autunno e per questo un’errata previsione meteo può causare danni ingenti. Poi si va in cantina, tra le file di anfore. Zorik è partito dall’idea di utilizzare anfore tradizionali armene, ma quando ha cercato chi le produceva si è accorto che non esisteva più nessun artigiano con il mestiere necessario e le conoscenze necessarie a realizzare questi contenitori. È riuscito a convincere i locali a riprendere la produzione di anfore, ma nel frattempo ha dovuto cercare un espediente per non perdere i primi raccolti di uva. Allora è andato casa per casa a cercare le vecchie anfore abbandonate, anfore che erano posizionate sotto terra e sotto le case stesse. Anfore grandi quanto una o più stanze abitative e dunque la loro estrazione significava la demolizione della casa soprastante. Quando Zorik ha proposto questa soluzione ai proprietari delle case e ha garantito la ricostruzione delle case con materiali e finiture nuove di zecca, questi sono stati felicissimi di aderire e lo hanno lasciato estrarre le anfore. Qualcuna si è rotta nell’operazione, ma Zorik è riuscito a ricavare un numero di recipienti sufficiente ad iniziare la sua produzione.

Assaggio il Karasì 2012. Il nome è la traduzione armena di anfora. Per la precisione un terzo è vinificato in acciaio, un terzo in botte grande, un terzo in anfora sigillata con cera e interrata, dove riposa per 10 mesi, poi viene assemblato per passare altri 6 mesi in bottiglia.

Il colore è rubino brillante gioioso e trasparente.  Portando il bicchiere al naso si entra in un mondo etereo fatto di sensazioni aromatiche intense di erbe e di macchia selvaggia, di bacche nere, di frutto rosso come l’amarena, il tutto reso complesso e intrigante da un sottofondo leggermente affumicato. In bocca è immediatamente succoso, fresco e slanciato con un tannino dolce e una presenza alcolica che contrasta bene con la forte sapidità e la scattante acidità. Grande eleganza, ma soprattutto equilibrio e una bevibilità che invita al riassaggio ad ogni sorso anche se la lunghezza non è eccezionale. Lascia intravedere una grande capacità di invecchiamento grazie alle doti acide e sapide e alla maturità del tannino.

Il Karasì 2013 ha caratteristiche simili. Più condotto dal frutto, con lamponi e fragoline di bosco in evidenza, ha pari slancio e freschezza. Stilisticamente ricorda un vino del sud Rodano.

Yeraz 2012 è un cru dalle vecchie vigne, sempre di Areni noir, recuperate a 1600m di altezza. Riposa per due anni in parte in anfora e in parte in botte grande da 31hl non tostata. Ha un bel frutto rosso di ciliegia e ribes. Palato fresco, piccante, teso, è elegante e slanciato con una bella presa che prolunga piacevolmente il sorso.

Voskì Bianco 2013. Ci sono voluti otto anni per selezionare due vitigni tra le decine e decine di possibili varietà presenti nella zona. Alla fine la scelta è caduta sul Voskeat e sul Garandmak, entrambe vitigni nativi dell’Armenia. le viti derivano da una selezione massale della vecchia vigna su piede franco a 1400 m. slm.

Il Voskeat, letteralmente il “seme d’oro”, è utilizzato sia come uva da tavola che come uva da vino. I grappoli sono medio-grandi, cilindro-conici, non troppo compatti, acino medio, sferico o leggermente ellittico, buccia spessa, bianca che diventa gialla ambrata a maturità, polpa succosa alto contenuto zuccherino. Vitigno vigoroso, ma molto sensibile a oidio e peronospora, di seconda epoca tardiva. Ha aromi tipici di agrume candito con ricordi di noce. Il Garanmak, letteralmente “coda grassa”, è una delle uve più diffuse. Molto resistente, ha buccia verde-gialla con acini grandi e buccia spessa, grappoli compatti.

La vinificazione avviene in cemento tronco conico con lieviti naturali, poi il vino passa in anfora per 11 mesi, quindi si affina per 6 mesi in bottiglia.

Al naso ha profumi di frutta bianca candita, albicocca e agrumi, una speziatura delicata che ricorda il lemon grass e fiori bianchi di campo. In bocca è pieno, ma vibrante per acidità e sapidità, appagante e lungo.

Un progetto affascinante per un gran bel vino, insomma,  della stessa bellezza esteriore ed interiore di  persone vere come  Zorik e Yeraz, grazie alle quali il vino più antico del mondo potrà tornare a dare emozioni  e sensazioni nuove e attuali. E riesco appena ad immaginare, guardando le foto dei loro vigneti, cosa potrebbe significare in termini emotivi una visita in questi territori. Why not?

Paolo Valdastri

www.zorahwines.com

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